1. Profili generali; 2. Condizioni generali per l’ammissione; 3. L’importanza del lavoro di pubblica utilità e la sua indispensabilità ai fini della concessione del beneficio; 4. L’impossibilità (temporanea o definitiva) a svolgere attività lavorativa; 5. Il caso: definitiva impossibilità sopravvenuta allo svolgimento dell’attività lavorativa.

 

  1. Profili generali.

La sospensione del procedimento con messa alla prova è una modalità alternativa di definizione del processo, introdotta nel nostro ordinamento con la legge n. 67 del 28 aprile 2014, che – in un’ottica deflattiva del carico giudiziario – consente all’imputato di chiedere al giudice la sospensione del giudizio per un determinato periodo di tempo, nell’arco del quale si possa valutare la sua volontà di risocializzazione ed il buon esito del percorso di rieducazione a cui l’imputato è sottoposto. L’esito positivo valutato dal giudice estingue il processo e il reato che ne fa oggetto.

  1. Condizioni generali per l’ammissione

L’istituto è disciplinato dall’articolo 168-bis c.p., il quale impone due limiti, uno di natura oggettiva e uno di natura soggettiva, alla concessione della richiesta di messa alla prova.

Il limite oggettivo, individuato al primo comma dell’art. 168 bis c.p., circoscrive l’applicazione dell’istituto ai reati di ridotta gravità (reati puniti con la sola pena pecuniaria ovvero con pena detentiva non superiore nel massimo a quattro anni), mentre il limite soggettivo riportato nel quinto comma esclude l’istanza di messa alla prova per coloro che commettono crimini e contravvengono a disposizioni di legge in modo abituale, per professione o per tendenza.

La messa alla prova comporta la prestazione di condotte volte ad eliminare le conseguenze dannose o pericolose del reato e, se possibile, il risarcimento del danno ed, al contempo, l’affidamento dell’imputato al servizio sociale.

Il comma 3 dell’art. 168 bis c.p. prevede, altresì, che la concessione della messa alla prova sia subordinata alla prestazione di lavoro (non retribuito) di pubblica utilità in favore della collettività che dovrà essere programmato di concerto con gli uffici di esecuzione penale esterna (UEPE), in maniera compatibile con le esigenze di vita, lavorative e familiari del soggetto richiedente.

  1. L’importanza del lavoro di pubblica utilità e la sua indispensabilità ai fini della concessione del beneficio

Dalla lettura della norma citata si evince, dunque, l’assoluta centralità del lavoro di pubblica utilità nell’economia dell’istituto in questione. Da un lato, esso è condizione necessaria per accedere alla messa alla prova; dall’altro, il suo corretto svolgimento è di fondamentale importanza ai fini della pronuncia della sentenza di non doversi procedere: secondo quanto dispone l’art. 464 septies c.p.p., il giudice dichiara estinto il reato “se, tenuto conto del comportamento dell’imputato e del rispetto delle prescrizioni stabilite, ritiene che la prova abbia avuto esito positivo.”

  1. L’impossibilità a svolgere attività lavorativa. Carattere temporaneo e carattere definitivo.

Mentre, tuttavia, la legge ha previsto l’ipotesi in cui l’impossibilità a svolgere attività lavorativa sia di natura temporanea e transitoria, nulla ha previsto per il caso in cui tale impossibilità sia divenuta definitiva.

Il legislatore fornisce, innanzitutto, un rimedio all’ipotesi di «difficoltà di completamento del programma individuale» (di cui il lavoro di pubblica utilità è parte integrante) successivo, logicamente, all’ammissione al beneficio, prevedendo all’art. 464-quinquies c.p.p. che i termini entro cui l’imputato deve adempiere alle prescrizioni e agli obblighi riparatori e risarcitori, così come disposti nell’ordinanza che dispone la sospensione del procedimento con messa alla prova, possono essere prorogati solo per gravi motivi, non più di una volta e su richiesta dell’imputato.

Nello stesso senso si è espressa la Corte di Cassazione che ha stabilito che il giudice non può negare la messa alla prova solo perché l’imputato, che ha i requisiti per l’ammissione, non può temporaneamente svolgere il lavoro di pubblica utilità per ragioni di salute; in questi casi il giudice è tenuto a valutare tali impedimenti, richiedendo approfondimenti ai servizi sociali o agli altri enti competenti, predisponendo integrazioni o modifiche al programma per renderlo compatibile con le necessità dell’imputato (Cassazione penale sez. IV, 14/01/2020, n. 10787).

  1. Il caso: impossibilità definitiva sopravvenuta allo svolgimento dell’attività lavorativa.

In un caso pratico, tuttavia, è accaduto che l’imputato ammesso alla prova, dopo avere iniziato il lavoro di pubblica utilità, aveva avuto un grave problema di salute (un infarto) che aveva determinato l’impossibilità oggettiva di completare il programma stabilito.

Dalla relazione dell’UEPE era risultato che, fino a quando era stato nelle condizioni di svolgere il lavoro di pubblica utilità previsto dal programma, l’imputato aveva adempiuto ai suoi impegni con professionalità e dedizione e anche dopo l’infarto subito si era mostrato amareggiato per non aver potuto continuare ad assolvere agli impegni assunti. L’UEPE aveva inoltre chiarito che l’infarto subito, così come le patologie sanitarie pregresse rendevano difficile per l’imputato svolgere compiti e funzioni proprie della sua età risultando impossibile, nonostante la volontà dell’imputato di completare il programma previsto, prevedere un lavoro di pubblica utilità sostitutivo in quanto incompatibile con le sue fragili condizioni di salute, le quali risultavano ulteriormente ampliate sia dai pericoli per la salute dovuti alla pandemia in corso provocata dal Covid-19 sia dalla sua età (settantottenne).

L’UEPE aveva aggiunto che nonostante l’infarto l’imputato si era poi prodigato per compensare la sua assenza al lavoro commissionando ai suoi operai la realizzazione di opere a favore dell’ente per il quale aveva svolto il lavoro medesimo.

Alla luce di tale situazione sopravvenuta, il Tribunale di Avellino ha dovuto, dunque, valutare il percorso di messa alla prova nel suo complesso e, nonostante il mancato completamento del programma per impossibilità oggettiva sopravvenuta, ha pronunciato sentenza di non doversi procedere per il buon esito della messa alla prova, valorizzando il rammarico mostrato dall’imputato a non poter continuare ad assolvere agli impegni assunti, la seria riflessione critica circa la condotta contestatagli e infine le iniziative a sfondo sociale intraprese spontaneamente per supplire alla sopravvenuta situazione di impossibilità (Tribunale di Avellino sentenza n. 666/2021).

Attraverso una lettura combinata delle norme in materia di  messa alla prova ed alla luce dei principi generali che informano il nostro ordinamento è stato possibile, dunque, addivenire ad una sentenza favorevole nonostante la sopravvenuta impossibilità (definitiva) di completare il programma di lavoro:  come si è detto, infatti, l’art. 464 septies c.p.p. prevede che il giudice dichiara estinto il reato “se, tenuto conto del comportamento dell’imputato e del rispetto delle prescrizioni stabilite, ritiene che la prova abbia avuto esito positivo”, ma non impone che il completamento del percorso lavorativo sia condizione imprescindibile della sentenza di proscioglimento. E pertanto, prendendo in considerazione parametri ulteriori e diversi rispetto allo svolgimento del lavoro di pubblica utilità, il Tribunale ha ritenuto che questo non costituisse requisito indispensabile ai fini della valutazione del buon esito della messa alla prova ma solo uno degli elementi che, unitamente ad altri, consente di valutare il ravvedimento dell’imputato e la sua volontà di riparare concretamente alle conseguenze del reato. Il tutto, ovviamente, in considerazione del principio per cui ad impossibilia nemo tenetur.

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